Dogtooth – Il Linguaggio Perverso di Lanthimos
Candidato agli Oscar come miglior film in lingua straniera, Dogtooth (Kynodontas) è un film del 2009 (disponibile nelle sale per il pubblico italiano solo dal 2020) diretto da Yorgos Lanthimos, regista e sceneggiatore greco. LA TRAMA IN BREVE Un Padre (Christos Stergioglou) e una Madre (Michele Valley) crescono i loro tre figli privi di un nome (Angeliki Papoulia, Figlia […]
Candidato agli Oscar come miglior film in lingua straniera, Dogtooth (Kynodontas) è un film del 2009 (disponibile nelle sale per il pubblico italiano solo dal 2020) diretto da Yorgos Lanthimos, regista e sceneggiatore greco.
LA TRAMA IN BREVE
Un Padre (Christos Stergioglou) e una Madre (Michele Valley) crescono i loro tre figli privi di un nome (Angeliki Papoulia, Figlia maggiore; Mary Tsoni, Figlia minore; Hristos Passalis, Figlio) nella loro imponente villa senza alcun tipo di contatto con il mondo esterno, dipinto come un ambiente pericoloso e avverso. Una prigione, la casa, che si sarà pronti ad abbandonare solo nel momento in cui uno dei propri denti canini cadrà, e il bambino diventerà adulto.
“ - Un bambino è pronto a lasciare la sua casa, quando?
- Quando il canino destro cade. O il sinistro, non è importante quale. In quel momento, il corpo è pronto ad affrontare tutti i pericoli.
- Per lasciare la casa in sicurezza bisogna usare la macchina. Quando uno può imparare a guidare?
- Quando il canino destro ricresce. O il sinistro, non importa quale.”
UN FILM DAI MOLTEPLICI SPUNTI INTERPRETATIVI
Lanthimos dà vita ad una società totalitaria su scala ridotta, governata da Madre e Padre che addomesticano i propri figli quasi fossero delle bestie (idea che si può ritrovare nel simbolo del canino, nel titolo stesso del film). Uno stato assoluto che chiude, limita, confina. Tale costrizione si sviluppa su molteplici livelli: Dogtooth è il capolavoro di un autore dallo spiccato senso sociale, capace di guardare con occhio profondamente critico il genere umano, riversandone le sofferenze, le debolezze e la crudeltà nelle sue opere.
La famiglia borghese, il patto sociale, la società chiusa, sono solo alcune delle tematiche centrali del capolavoro che è Dogtooth, un lungometraggio che si costruisce come una critica aperta ad una società disfunzionale, che erige le sue fondamenta nell’ipocrisia dell’istituzione familiare.
"Un cane è come la creta, il nostro lavoro, qui, è di dargli forma [...] Ogni cane, anche il suo, aspetta che noi gli insegniamo come comportarsi. Capisce? Noi siamo qui per determinare quale comportamento il cane dovrebbe avere. Vuole un cucciolo o un amico? Un compagno? O un cane da guardia che rispetta il suo padrone e obbedisce ai suoi ordini?"
DOGTOOTH COME RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO
Tuttavia, è interessante sottolineare l’uso che Lanthimos fa del linguaggio, offuscato, forse, dalla vivacità delle immagini. Da un lato tramite la creazione di una nuova lingua, dall’altro attraverso l’assenza totale di nomi propri, in Dogtooth emerge la meravigliosa potenza del linguaggio e la sua imprescindibile importanza nella nostra società.
I figli crescono privi di un nome proprio. Assenza di nome significa quasi assenza di identità, come se i tre ragazzi non fossero singoli individui ma entità illusorie che sfumano l’una nell’altra, ruoli meramente rivolti ad assolvere la funzione loro assegnata. Ma è davvero così? D’altronde Shakespeare affermava, “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”. È il linguaggio che ci determina, che determina la realtà nella quale viviamo, le entità con le quali entriamo in contatto? O noi esistiamo anche al di là di esso?
I LIMITI DEL LINGUAGGIO E I LIMITI DELLA REALTÀ
Mi affascina profondamente osservare quanto il linguaggio sia in noi radicato, con quale fatica possiamo pensare senza di esso. Ci è sostanzialmente impossibile immaginare qualcosa senza associarlo al nome attribuitogli, e altrettanto difficile è immaginarci ciò che ancora un nome non ha.
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“I limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo”, affermava Ludwig Wittgenstein, filosofo del linguaggio. Possiamo pensare, categorizzare la realtà, al di là del possesso di una lingua? La lingua che parlo determina davvero come concettualizzo il mondo che mi circonda? La lingua causa la rappresentazione della realtà o la riflette? Sono tutte domande che Dogtooth fa sottilmente emergere.
L’ARBITRARIETÀ DEL LINGUAGGIO
Il nostro linguaggio è, anzitutto, arbitrario: non c’è un legame necessario che lega una stringa di suoni (o la sequenza di lettere) ad un concetto e all’entità del mondo che ad esso associamo; tali legami sono posti dal sistema linguistico per convenzione. Per cui, non vi è assolutamente nessun motivo se con sedia indichiamo l’oggetto di arredamento che sfruttiamo per studiare, per lavorare, per mangiare al tavolo. Non c’è ragione valida per cui mare indica le distese d’acqua che ricoprono la nostra Terra. E lo dimostra Lanthimos: mare diventa una poltrona in cuoio, autostrada è un vento molto forte.
“Le parole nuove di oggi sono: mare, autostrada, escursione e carabina. Mare è una poltrona in cuoio, autostrada è un vento molto forse, escursione è un materiale durissimo per fare i pavimenti e carabina è un bellissimo uccello bianco.”
IL LINGUAGGIO NEL SUO VALORE SOCIALE
Ma ha davvero importanza? Per Lanthimos l’acquista da un punto di vista sociale: il linguaggio si configura come principale espressione di potere, di controllo. Non si tratta, qui, in Dogtooth, di una nuova lingua creata dal nulla; si tratta di un processo più perverso, intimo: cambiare significato alle parole che un significato proprio hanno già. E tale trasformazione ha un obiettivo preciso: sottomettere, rinchiudere, escludere. La lingua si presta ad essere un perfetto strumento di repressione, un mezzo attraverso il quale Padre e Madre possono controllare e dominare la libertà dei propri figli: con una lingua fatta di parole mescolate, dai significati rimestati, le difficoltà a comunicare con il mondo esterno, che quella lingua la parla diversamente, sono molte.
Si ritrova, in qualche modo, lo stesso concetto di Neolingua introdotto da George Orwell nel suo capolavoro letterario 1984, lingua il cui obiettivo è vietare lo sviluppo spontaneo di qualsiasi tipo di forma di pensiero alternativo a quello imposto dai princìpi del partito dominante, affinchè tutto possa essere, appunto, controllato. Il nostro pensiero dipende in larga parte dalle possibilità linguistiche che abbiamo a disposizione per esprimerlo e per dargli forma compiuta e, a loro volta, le stesse espressioni linguistiche inducono in noi certi concetti, escludendo la possibilità di elaborarne altri. Ciò avviene non solo con la creazione di nuove parole, ma anche e soprattutto grazie alla soppressione di significati precedenti e già esistenti.
LA REALTÀ A PRESCINDERE DAL LINGUAGGIO
Nel nostro rapporto con la realtà, che cosa cambia? Siamo troppo immersi nel linguaggio per poterne fare a meno, ma ciò non significa che la nostra realtà sia da esso determinata. Certo, ci è difficile pensare al mare senza nominarlo e definirlo tale, senza pensare a questa stringa di foni e fonemi che lo distingue. Ma esso, come entità, esisterà a prescindere dal suo significante e a prescindere da esso ne potremo avere esperienza. La lingua non determina il nostro pensiero o la nostra realtà, ma ha certo una grande influenza su di essa, spingendoci a soffermarci e a sviluppare taluni aspetti piuttosto che altri. Credo più all’idea che la lingua rifletta la realtà che ci circonda, che è nostra, e la cultura che ci appartiene. Ma essa non ci limita, sicuramente, nell’esperire il mondo: “Mamma, ho trovato due piccoli zombie!”