Favolacce – La povertà dell’animo umano
Tra grottesco e surreale, Favolacce racconta di un’umanità che vorremmo dimenticare.
Il termine favola indica una breve vicenda, narrata in versi o in prosa, i cui protagonisti possono essere persone, animali o cose, e il cui fine è di far comprendere in modo facile e piano una verità morale. Favolacce, film del 2020 scritto e diretto dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, ha tutti gli elementi del genere letterario della fabula, ed è tanto ricco di morale quanto ne sono poveri i suoi protagonisti - come, d’altronde, il nome può lasciare intendere.
L’ATEMPORALE CHE SI FA UNIVERSALE
La voce esterna di un narratore anonimo e asettico (prestata da Max Tortora) accompagna lo spettatore in un viaggio che ha del surreale e del grottesco e che attraversa terreni stravaganti per il cinema italiano che siamo abituati a vedere in sala, spostandosi verso tinte che, a tratti, ricordano il cinema greco di Yorgos Lanthimos.
La voce fuori campo racconta di essersi imbattuta in un diario, anch’esso anonimo, che racconta una storia vera ispirata a una storia falsa, anche se la storia falsa non è molto ispirata. Il diario è incompleto, si interrompe bruscamente, e il narratore stesso afferma di averlo tenuto solo all'idea di poter colmare le diverse decine di pagine lasciate sgombre con inutilità. Quanto sia parte originaria del manoscritto e quanto sia frutto della fantasia del novelliere non ci è dato saperlo, verità e finzione si mescolano abilmente. Fin da subito, ad imporsi in Favolacce è un’atmosfera atemporale e onirica, priva di riferimenti di alcun tipo. E, per questo, dalla validità spaventosamente universale.
Vorrei tutto quel resto che sento emergere, ma anche solo sconclusionate righe di fanciullesche inconsapevolezze su cui meditare. Arriva a un determinato punto, poi non scrive oltre. Senza preavviso e senza scrivere che non avrebbe più scritto, forse ha trovato un diario migliore o forse ha trovato una vita migliore. Fatto sta che io quel diario l'ho tenuto e l'ho continuato perché quella vita mi piaceva.
LA BRUTTEZZA DE-PERSONALIZZANTE
È a Spinaceto, uno scialbo e impersonale paesino della provincia sud di Roma, che si muovono i personaggi di Favolacce, membri di famiglie divise tra una campagna umida e brumosa e una villeggiatura costituita da case anonime e comuni, fotocopie l’una dell’altra, che potrebbero trovarsi tanto nella capitale italiana quanto in ogni altro luogo, prive di un qualsivoglia elemento distintivo e personalizzante.
De-personalizzati sembrano essere anche gli uomini e le donne che camminano per le strade del quartiere, che di individuale non hanno nulla ma che, al contrario, si impongono come marionette tra loro identiche e guidate dallo stesso burattinaio, i cui fili si intrecciano in una rete di odio, invidia, bassezza e bruttezza morale ed emotiva.
All’apparenza, in Favolacce tutto sembra essere tranquillo: le famiglie, medio-borghesi dai figli ben educati, ben pettinati e ben vestiti, si ritrovano sedute attorno ad un tavolo intente a gustare la cena durante una calda e ferma serata estiva. Niente sembra poter rovinare la serenità che regna sovrana.
Eppure, qualcosa che non quadra c’è, lo si può percepire, lo si può sentire mentre emerge dagli sguardi persi, dalle parole scarne, dalle risate angoscianti, dalle inquadrature troppo distanti o troppo vicine. Qualcosa di strano c’è, nella famiglia che, in apertura del film, guarda la televisione nella quale scorrono immagini di cronaca nera e rimane ferma, rigida, impassibile, senza parlare, senza mostrare emozioni o stordimento.
Qualcosa di strano c’è, nella tavola apparecchiata circondata da persone che sembrano svuotate della voglia di stare insieme amichevolmente e riempite di invidia, volontà di imporsi, paura di non avere abbastanza da dire per apparire sufficientemente speciali e bravi. Qualcosa di strano c’è, nei bambini che ad alta voce, come piccoli automi, leggono i voti di pagelle immacolate, dai voti eccellenti, primo indizio di una superficialità destinata a dissolversi in tragedia.
SENTIRSI GRANDI GRAZIE AI PICCOLI
Bruno Placido (interpretato dall’eccezionale Elio Germano) e Dalila (Barbara Chichiarelli) sono i genitori di due bambini, Alessia (Giulietta Rebeggiani) e Dennis (Tommaso di Cola), studenti modello, impeccabilmente educati. I coniugi Rosa (Max Malatesta e Cristina Pellegrino) hanno una figlia, Viola (Giulia Melillo), che a scuola ha invece qualche difficoltà. Vilma (Ileana D’Ambra) è una ragazza giovane, che aspetta un figlio. Amelio Guerrini (Gabriel Montesi) vive in un prefabbricato in mezzo al verde insieme al figlio Geremia (Justin Korovkin), un ragazzo timido e di poche parole.
Favolacce si tratteggia sull’opposizione netta e discriminante tra adulti e bambini, due mondi diametralmente opposti, dei quali uno è destinato a soccombere all’arroganza e prepotenza dell’altro. Gli adulti rappresentano un insieme di esistenze fallite, di rimpianti, di vergogne, di frustrazioni. Dentro di loro non hanno altro se non sudiciume, inettitudine, bruttezza. La loro è una povertà non banalmente materiale ed economica, quanto più spirituale, d’animo.
Un’ignoranza e un pressappochismo che, però, gli adulti non vogliono accettare, nei quali non intendono riconoscersi consapevolmente. Una superficialità che si trasforma in una lotta all’altro, in un bisogno costante di dimostrare che la propria esistenza è valida e migliore. Anche se questo comporta il vuoto: perché l’odio si oppone alla felicità, contrasta con il sorriso, impedisce di crescere.
Questi adulti, questi grandi, abusano e sfruttano i figli, i più piccoli e indifesi, per sopperire alla loro piccolezza d’animo. Li trasformano in trofei da esibire quando è più necessario, in oggetti da plasmare a propria immagine e somiglianza. Non ne comprendono i bisogni, bruciano la loro innocenza e il loro candore, costringendoli con violenza e perversione ad una crescita troppo rapida, che non sono in grado di sostenere.
Sei uguale a me! Hai capito? Sei uguale a me! Bravo!
QUANDO LA FAMIGLIA NON DÀ RISPOSTE
A farsi sempre più piccoli fino a scomparire, infatti, in Favolacce sono i bambini, vittime di un’educazione inesistente e di una mancanza di affetto che li rende invisibili allo sguardo imbevuto d’ira dei genitori. Che li trasforma in fantasmi, come nel libro di Canterville che la scuola ha assegnato come lettura estiva, impossibilitati a comunicare un disagio che, da soli, non riescono a comprendere.
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L’istituzione famigliare, qui, non funziona (e di nuovo si tratteggia un paragone con Lanthimos e il suo Dogtooth, nel quale la famiglia è descritta nei termini di un regime totalitario a scala ridotta che priva i figli del contatto con la realtà esterna e della libertà).
Come nella scena del film, in cui Dennis e Alessia, rimasti da soli, chiamano a gran voce l’uno il nome dell’altro, così i bambini tutti sono in costante ricerca di punti di riferimento, modelli a cui ispirare il proprio comportamento.
Ma quando la famiglia non offre risposte, quando volta la testa dall’altro lato distratta dal proprio Sé, quando è troppo impegnata a disprezzare e disprezzarsi, allora i figli si rivolgono a qualcun altro.
E questo qualcun altro non è detto che abbia le risposte giuste da offrire.
Devi esse contento che c'hai due genitori così.
I bambini di Spinaceto, intristiti e avviliti dal sentimento di ripugnanza, inimicizia e sdegno che aleggia nell’aria, trovano nel professor Bernardini la guida che li condurrà alla dissoluzione definitiva. Una figura dai tratti assurdi e irrazionali, emblema del carattere metaforico di Favolacce, che, muovendosi indisturbato sullo sfondo, proporrà ai suoi alunni l’unica soluzione plausibile in un contesto di vita dominato dalla futilità, l’unico modo per trovare un po’ di pace: la morte.
LA CICLICITÀ DEL DOLORE
Una morte, quella al termine di Favolacce, che non sembra essere, in alcun modo, risolutoria. Una morte che non porta ad una rinascita, ad un cambiamento. Una morte che non spinge a riflettere, che non contribuisce ad un miglioramento, ma passa inosservata, dissolvendosi rapidamente così come è arrivata.
Una morte interiore, un’implosione dell’anima più che del corpo, che non coinvolge nessuno al di fuori delle sue vittime carnali, materiali. Non fa vittime, poiché i genitori continuano a non guardare in faccia la realtà, capaci di nascondere a sé stessi anche quest’ultimo gesto estremo, quest’ultimo richiamo ad una vita fatta di amore e di calore.
L’unico a salvarsi sarà Geremia, scampato in tempo al suicidio di massa, ma allo spettatore non è dato sapere che direzione prenderà il suo destino, presumibilmente non dissimile dagli altri, sfocato dietro al sorriso di un padre che, pur nella sua bontà, non è in grado di assolvere al compito che gli è stato assegnato.
Una morte che non fa vittime perché nessuno la comprende, ma di cui tutti sono carnefici, colpevoli di una brutalità d’animo propria di un’umanità che vorremmo vedere soccombere.
E, quindi, tutto ricomincia: il telegiornale si ripete e il dolore non viene spazzato via, ma anzi si accumula, ciclo dopo ciclo.
Sento parecchio rimorso per avervi raccontato questa storia insensata e amara e anche pessimistica. Vi meritavate forse qualcosa di più realistico, da storia normale, di quelle che accadono tutti i giorni e non lo sfogo di un annoiato dalla vita. Vi chiedo scusa.
IL SUCCESSO DI FAVOLACCE
Nonostante la distribuzione di Favolacce sia avvenuta durante il periodo di pandemia, con le sale cinematografiche ancora chiuse, la pellicola ha riscosso un successo che gli è valso l’Orso d'argento per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino, il Nastro d’Argento per miglior film, miglior sceneggiatura, miglior fotografia e migliori costumi e ben 12 nomination ai David di Donatello 2021.
Favolacce è disponibile per lo streaming su PrimeVideo e NowTv, mentre può essere acquistato su Chili.
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HyRankFavolacce
Un film potente, che inevitabilmente colpisce lo spettatore proponendo un tema su cui fermarsi a riflettere. Assurdo e grottesco, grazie ad un abile gioco di inquadrature tratteggia un'umanità deviata, alla quale non vorremmo ma abbiamo paura di appartenere.